L’evento dell’estate, proprio al suo inizio: il concerto di Liberato a Roma, a ridosso del solstizio, per inaugurare la prima notte che torna ad allungarsi, sono quasi 12 ore che dal fuoco assolato del pomeriggio di Napoli SegretaTiger & Woods nella brezza notturna sull’Appia antica.
Ma il clou di questa liberazione di Roma è l’ora e mezza di sfrenata performance stratosferica di musica elettronica, melodie pop, cassa dritta e rutilante, rap napoletano eterna poesia della strada e cori esaltati del collettivo che si aggira intorno al nome di Liberato, lo sconosciuto rapper napoletano incappucciato, come viene da tutti definito. E che a noi fa pensare a una collettività aperta di visionari inventori innamorati di Napoli, produttori musicali e musicisti, intorno all’iconica voce, poi il poetico regista dei video, vere e proprie narrazioni filmiche musicali, quel Francesco Lettieri che accompagna il progetto con immaginario incantato, dal primo “singolo” di adolescenza solare di Nove maggio ai cinque episodi da melodramma mediterraneo tardo-moderno, sull’effimera perduranza della nostre vite, di Capri Rendev-Vous, per arrivare poi a tutta la rete di tecnici del suono, delle luci, delle immagini e fotografi e grafici che rendono unico in Italia un esperimento così potente eppure volutamente senza volto.
Apparentemente un ossimoro, ai tempi di Instagram e del selfie permanente. Eppure Liberato è forse tutti questi volti e corpi e passioni e vite che sabato 22 giugno si sono date appuntamento qui: le oltre 20 mila ragazze e ragazzi 20-30enni, con picchi adolescenziali e cime negli anta, radunate sotto il palco di questo primo, già epico, evento di Rock in Roma 2019.
Alle 22.45 circa cala sul palco lo schermo centrale pieno di visual, laser e luci, a oscurare i tre musicisti incappucciati che si sono schierati sulle due pareti laterali e sullo sfondo, tra i quali quello al centro sembra essere “il cantante”, e parte la sirena di Guagliò, fomento sottocassa, con gran parte della platea persa nei video dai telefonini. Così una voce dal palco urla «buttàt’ via chisti cazz’ e’ telefoni’: chesta sera ate a ballare». È ovviamente la prima, epperò rimarrà una delle rarissime volte, che dal palco una voce si rivolge direttamente al pubblico in visibilio dal primo all’ultimo minuto della performance. E anche nell’altro paio di casi – di esortazione al ballo e al maggiore canto da parte dal pubblico – la sensazione, per noi che siamo tra le primissime file – e quindi probabilmente non nel posto ideale di ascolto – è che “questa voce” sia profondamente, radicalmente, diversa dalla “voce di Liberato”, per dizione, potenza, cadenza. È il mistero rispetto al quale partono sempre le congetture.
Il mistero che obbliga il rapper napoletano Livio Cori, nelle stesse ore in cui noi siamo in questo splendida, catartica, festa, a fare un live a Napoli, riprendendolo e diffondendolo via web in contemporanea, per smentire la voce che lo vuole essere Liberato. E nel gorgo della folla qui a Capannelle, le voci del pubblico si rincorrono nella sensazione che le tracce vocali possano essere digitali, troppo “in tempo”, rispetto ai canti e cori del pubblico e tutte troppo astrattamente identiche a quelle che oramai da oltre un anno ascoltiamo in cuffia, in macchina, al pc, in radio e dovunque.
Ma tutto questo alimenta soltanto in positivo l’esaltazione della platea e l’amore per un progetto che sembra tenere dentro tutta la passione possibile per Napoli, quella repubblicana del 1799, dei giovani detenuti del carcere di Nisida, del nipote di Bakunin, il matematico Mario Caccioppoli (morto volontariamente nel 1959, la sera del giorno prima del nove maggio), del circolo di Posillipo, di palazzo Donn’Anna, di quelle giornate da ferito a morte dalla bellezza e dall’incanto di mare e natura e di molto altro ancora.
E così il pubblico, dopo una versione meno tirata del previsto di Oi Marì, intona note e parole della inaspettata citazione da Stand by, sotto una luna proiettata sul palco che si trasforma in migliaia di stelle per introdurre una versione entusiasmante, estesa e festaiola, di Gaiola portafortuna. È il delirio che si diffonde in Intostreet, passa per i suoni singhiozzanti di Je te vojo bene assai e arriva all’origine di tutto, quel Nove maggio dello scorso anno, quando uscì la prima traccia. E quindi i due pezzi che fanno letteralmente infuocare di danze e urla la platea oramai in trance. Me staje appennenn'amò dilatata a quello che è sembrato un quarto d’ora di puro viaggio sonico nel multiverso spazio-temporale della musica elettronica perfetta, diluendo crescendo e rallentamenti, evocando i Daft Punk di Aerodynamic. Per passare poi alla invasata Tamurriata nera calata nella danza forsennata e infinita di Nunn'a voglio 'ncuntrà. È l’apoteosi che termina con Tu t'e scurdat' 'e me, ultimo pezzo dell’album uscito poco settimane fa.
Un’ora e mezza esatta di epifania, conclusa dai tre musicisti incappucciati e abbracciati, pugni chiusi al cielo, che guadagnano per la prima e unica volta la ribalta del palco oscurato su fondo di luce rossastra. Mentre le migliaia di persone si abbandonano all’uscita al canto liberatorio, improvvisato eppure corale, de 'O surdato 'nnammurato. Liberato canta ancora nelle nostre teste, negli sguardi e nei sorrisi del ritorno alla normalità di una Roma liberata, anche se solo per una notte, qui a Capannelle. Un inizio così credo Rock in Roma non lo abbia mai avuto. Avanti tutta Setlist Guagliò Tu me faje ascì pazz Oi Marì Gaiola portafortuna Intostreet Je te voglio bene assaje Niente Nove maggio Me staje appennenn' amò Nunn'a voglio 'ncuntrà Tu t'e scurdat' 'e me
Articolo del
24/06/2019 -
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