Nella torrida notte che ha aperto l’estate, venerdì sera a Parco Schuster di fronte alla Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, il Muro del Canto ha messo a segno un altro colpo, l’ennesimo, nella città che gli ha dato nascita, ispirazione, racconti, e il cuore del suo meraviglioso pubblico.
Il Muro è una miscela difficile da descrivere senza cadere in troppo facili semplificazioni: è si, come dice la copertina del loro primo disco, un complesso di musica popolare romana, ma non c’è niente di provinciale o ordinario in quello che fanno. L’orgoglio dello scenario incredibile di Roma diventa linfa emotiva per travolgere chi li ascolta, e anche un po’ sé stessi. A San Paolo, l’altra sera, se n’è avuta una grande dimostrazione.
Ad aprire la serata è stato però un clamoroso Elio Germano, assolutamente a suo agio nei panni del rapper militante, con i suoi BestieRare: davvero un gran bel set il loro, che ha scaldato il pubblico per quanto, anche per motivi climatici, in realtà non ce ne fosse bisogno!
Dopo pochi minuti di pausa, e introdotti da una intro strumentale ecco che attacca il fuoco folk del Muro del Canto. La band suona forte quando c’è da spingere, da cantare rabbia e rivoluzione, e accarezza quando c’è da diventare seri, riflessivi e romantici. Alterna sventagliate di fisarmonica (cuore del sound) ai battiti delle percussioni, incalzanti anche in mancanza di un set di batteria vero e proprio, mentre la voce tonante e profonda segna i racconti con sincerità disarmante. Ecco sono loro tre l’anima più evidente del Muro: Daniele Coccia, voce e autore dei testi cantati, Alessandro Marinelli il “Fisa”, tutto cuore e tecnica che si dà ogni volta fino all’ultima goccia di sudore (le sue facce estasiate rivolte verso il pubblico o al cielo sono parte immancabile dello show), e Alessandro Pieravanti percussioni e voce narrante nei racconti di cui è anche autore.
Nel giorno della Festa della Musica, però, per un racconto lo spazio è tutto per il primo ospite della serata, presentato già al secondo brano in scaletta: un grande Marco Giallini, che legge con la sua contagiosa personalità il testo di Roma Maledetta, tratto dall’ultimo disco del Muro, L’amore mio non more, e poi si siede alla batteria per accompagnare la banda in “Ciao Core”. L’altro grande ospite della serata è un altro fuoriclasse: Roberto Angelini, che alla steel guitar impreziosisce alcuni brani tra cui La vita è una.
La temperatura pian piano sale ulteriormente sul palco e tra il pubblico: “L’ammazzasette” (titolo anche del primo disco del gruppo uscito nel 2012) che resta a mio parere personale la summa di sound e liriche del Muro, “Serpe in seno” velenosa come sempre, “Il Canto degli Affamati”, “L’amore mio non more”, “Reggime er gioco” (che segna così come tutto il nuovo disco, il tentativo riuscito di sporcare le consuete tonnellate di folk del gruppo, con una ventata di nuova bella tensione di ritmi e suoni), si succedono tra cose più recenti e brani più vecchi; “Chi Mistica Mastica” è sempre un bel pugno allo stomaco, soprattutto suonata a pochi metri dalla Basilica di San Paolo, mentre “Arrivederci Roma è il canto accorato verso una città che da troppo tempo si stenta a riconoscere.
I ragazzi presentano la loro versione di “Man in black” di Johnny Cash, adattata in italiano (potrebbe essere già l’anteprima di un nuovo disco?), e con la quale raccontano di sé, delle loro origini, del loro modo di vestire di scuro. Detto della consueta interpretazione magistrale di Pieravanti nel suo racconto “Domenica a pranzo da tu madre” (ma stavolta è mancata la tovaja a fiori tra le prime file!) e del momento a suo modo romantico di “Peste e Corna” (in cui lo stesso Pieravanti invita a formare le coppie, anche estemporanee, tra il pubblico per ballare un valzer strampalato ma de core) il finale è affidato come sempre a “La Malarazza”, brano che Domenico Modugno scrisse ispirandosi ad un sonetto siciliano: ancora rabbia, ancora rivoluzione, nel cuore ma anche tra le mani.
Citando doverosamente Ludovico Lamarra ottimo al basso, Eric Caldironi infaticabile chitarra acustica e tastiere, e il bravissimo Franco Pietropaoli che da un anno a questa parte ha preso il posto di Giancarlo Barbati, ovvero Giancane, il pubblico richiama Coccia e compagni per un paio di bis, veri e propri: i ragazzi risuonano due brani già eseguiti, “Fiore de niente” e “Ciao Core”, se possibile ancora più accorati e appassionati.
Il pubblico non se ne vorrebbe andare, e la gente del Muro del Canto è davvero un’altra componente vincente: ci sono mamme e papà con i figli, quaranta/cinquanta/sessantenni energici e instancabili, tanti ragazzi anche giovanissimi che sanno tutte le canzoni a memoria.
Non c’è presunzione o spacconeria nelle canzoni del Muro: si è vero, è Roma senza dubbio, e non potrebbe essere altrimenti, si respira l’aria dello sguardo attento o sfuggente tra le vie della città, come un teatro di sentimenti, tradimenti, coltellate, bestemmie e visioni, che chiede solo di essere raccontato e vissuto. C’è senso di appartenenza ma nel nome della condivisione, della solidarietà che non manca mai nelle intenzioni e nei fatti nella pur ancora breve storia del Muro del Canto, e dello scambio di storie e abbracci anche solo per una notte, per una canzone. C’è l’orgoglio sincero ma non ostentato, di una città che in fondo sa di non potersi permettere il lusso di essere meno che eterna.
Articolo del
23/06/2019 -
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